Sermone speciale. Forbidden Planet, uno dei primi film di fantascienza classica a colori che ogni piccolo terrestre si vanta di aver visto almeno una volta nella vita. Perchè allora farne oggetto di un sermone?! Qualcuno potrebbe giustamente chiedersi...ve lo spiego subito: perchè alle volte capita che, anche il mainstream più estremo può riservare dei lati nascosti ed intriganti, tutto sta è avere l'occhio illuminato e, soprattutto, il cervello atomico!
Per darvi l'idea di cosa intendo, questa settimana, come annunciato d'altronde, mi avvarrò dell'aiuto prezioso di un'ancella del demonio d'eccezione. Più che una mente illuminata, un mente illuminata e scientifica, divulgatrice di studi puntuali su cinema fantascientifico e architettura - che poesia!! Dunque a te la parola, Fusa:
Forbidden Planet è il primo film di fantascienza realizzato dalla MGM, e la potente casa di produzione investì per questo debutto oltre un milione di dollari, la cifra più alta fino ad allora mai spesa per la realizzazione di un film fantascientifico. Il costo di produzione così alto è dovuto in parte alla realizzazione delle maestose scenografie totalmente ricostruite in studio ma soprattutto agli effetti speciali animati realizzati in collaborazione con lo staff della Disney.
La sceneggiatura di Forbidden Planet è tratta da un racconto di Allen Adler e Irving Block intitolato Fatal Planet liberamente ispirato a La tempesta di William Shakespeare; il cambio del titolo in Forbidden Planet fu una scelta promozionale della casa di produzione, ma la trama è pressoché identica a quella del romanzo, tranne che per il lieto fine e l’ambientazione più “vicina” che c’erano nel racconto (ambientato nel 1976 sul pianeta Mercurio).
Il film (caso pressoché isolato in tutti gli anni Cinquanta) s’inserisce degnamente nella corrente matura e sofisticata del genere fantascientifico, al punto che per il critico cinematografico Aldo Moscariello, Forbidden Planet è "il film di fantascienza come uno se lo immagina, anzi anche migliore". I meccanismi del terrore ben studiati, con il mostro che non appare mai ma che si lascia solo immaginare, diffondono in tutta la pellicola un alone di insicurezza e diffidenza verso il prossimo che coinvolge ed inquieta lo spettatore, al punto che Jeff Rovin definisce il film come " the most awesome science-fiction spectacle ever made". Il mostro dell’ID fu realizzato da Joshua Meador, all’epoca a capo del dipartimento effetti speciali della Disney, e, sebbene lo si intraveda soltanto nella scena in cui assale l’equipaggio, riuscì a spaventare molto il pubblico, al punto tale che la scena venne censurata in alcuni Paesi.
Ma al di là degli effetti speciali, l’angoscia ed il fascino che il film riesce a suscitare anche al giorno d’oggi sta soprattutto nel tema psicanalitico del mostro inconscio che sta in agguato dentro ognuno di noi. Tuttavia, i precisi obbiettivi commerciali della casa di produzione, spinsero a lasciare solamente abbozzate queste citazioni più complesse, e si preferì perciò semplificare l’aspetto inconscio della trama in un’ottica più semplice e passionale, evidenziando la gelosia nei confronti della figlia Altaira come causa scatenante del lato oscuro (l’ID) del dottor Morbius. Altaira è una figura fondamentale nello svolgersi della trama, il film può essere infatti anche letto in chiave del suo passaggio all’età adulta attraverso la “perdita dell’innocenza” e la conseguente perdita dei suoi “poteri soprannaturali” (esplicativa in questo senso la scena in cui la tigre la aggredisce dopo che ha baciato il capitano Adams), ma è innegabile come il suo personaggio rimanga poco delineato psicologicamente, limitandosi a porsi come “oggetto del desiderio”, indossando abiti succinti, nuotando nuda nel lago (una scena fortemente voluta dalla produzione per dare quel tocco di “proibito” necessario per il lancio pubblicitario del film) e ammiccando maliziosamente a svariati membri dell’equipaggio.
Nonostante il film sia diventato con il passare degli anni un classico di culto, lo scarso successo che ottenne quando uscì è il motivo per cui questa pellicola non ha esercitato molta influenza sui film successivi; in particolare Forbidden Planet è uno dei rari film dell’epoca in cui l’azione si svolge in galassie lontanissime: il resto della cinematografia fantascientifica del periodo sceglierà prevalentemente ambientazioni terrestri.
ID monster. Electro-shocking hidden nightmare!! |
Leslie Nielsen e Anne Francis |
Curiosamente uno dei personaggi che ottenne maggior successo dal film fu il robot tuttofare Robby, probabilmente “l’attrezzatura scenica” più costosa mai realizzata (125.000 dollari), protagonista negli anni successivi di film (Il Robot e lo Sputnik del 1957) e serie TV (tra le quali Lost in Space). Robby sarà addirittura nell’agosto del 1956 ad accogliere i visitatori alla mostra This is Tomorrow alla Whitechapel Art Gallery di Londra. All’interno della stessa mostra, il robot sarà protagonista dell’allestimento dello stand di maggior successo tra il pubblico, quello realizzato da Richard Hamilton, John McHale e John Voelcker.
Degna di nota è anche la colonna sonora che Louis e Bebe Barron realizzarono utilizzando, per la prima volta nella storia del cinema, esclusivamente suoni sintetici, un’impresa notevole se si pensa che il primo sintetizzatore Moog fu costruito solo nel 1964, e che quindi i Barron si costruirono in casa i circuiti elettrici che utilizzarono per registrare i suoni e creare i vari effetti.
Altaira e Robby The Robot |
L’architettura e la scenografia è oggettivamente innegabile che alcune delle ambientazioni esterne di Forbidden Planet appaiano esplicitamente finte e posticce, dando luogo a strani effetti ottici che spesso alterano l’equilibrio tra soggetti in primo piano e soggetti di sfondo, proprio a causa dei fondali dai colori troppo chiari e brillanti.
In questa pellicola l’attenzione degli scenografi Cedric Gibbons e Arthur Lonegarn si concentra principalmente sulla realizzazione di interni futuribili, ed i dettagli ed i riferimenti architettonici che possiamo rilevare sono numerosi e sorprendentemente interessanti.
In questa pellicola l’attenzione degli scenografi Cedric Gibbons e Arthur Lonegarn si concentra principalmente sulla realizzazione di interni futuribili, ed i dettagli ed i riferimenti architettonici che possiamo rilevare sono numerosi e sorprendentemente interessanti.
La prima cosa da osservare è la predominanza delle linee curve sia negli “involucri” architettonici veri e propri come la navetta spaziale e il laboratorio dei Krell, sia negli arredi (i tavoli e le scrivanie in particolare). L’unica ambientazione che si discorda da questa tendenza alle linee curvilinee e alle forme sinuose è la centrale nucleare costruita dai Krell, quasi a sottolineare come le forme “morbide” siano più adatte alla vita “comoda” dell’uomo, mentre le forme più lineari e “razionaliste” si adattino meglio alla funzionalità industriale. Secondo Franco La Polla il film di Wilcox trova i suoi riferimenti nella “spatial frenzy”, la “frenesia spaziale” che aveva invaso gli Stati Uniti negli Anni ’50. Per La Polla “Una macchina potentissima si era messa in moto nel tentativo di convincere il Paese che era incominciata l’era spaziale e che un viaggio astronautico, per quanto più impegnativo, si modellava su quello di veicoli più familiari come gli aerei. Nasce così quella strana, affascinante commistione di sorpresa e di comfort che leggiamo nel rifugio del Pianeta Proibito del film omonimo. Gli USA stavano facendo i primi conti con il problema dell’automazione (se ne parlava molto in quegli anni) e le meraviglie dei laboratori di Morbius sono tutte improntate al “minimo sforzo, massimo rendimento” nella finalità di rendere la vita dei suoi abitanti sempre più tranquilla e comoda. Ecco allora che la scenografia del film, coi suoi pannelli, le sue spie luminose, i suoi macchinari assolve non solo il compito di indicarci come il futuro sarà tecnologicamente progredito e complesso, ma anche e soprattutto di come esso sarà funzionale ai bisogni dell’uomo: esattamente quello che predicavano governo, scienziati e stampa nell’America di quegli anni”. Proprio in questa definizione di architettura funzionale e “comoda” sembra porsi infatti la casa di Morbius, una delle ambientazioni sicuramente più riuscite del film. Sebbene non sia specificatamente mai detto nella pellicola, le forme e gli spazi profondamente umani e “terrestri” dell’abitazione fanno apparire come molto improbabile che essa possa essere opera dei Krell (alla luce anche del confronto degli altri spazi da loro costruiti), ed è più plausibile l’ipotesi che possa essere stato Morbius a costruirla con l’aiuto del robot Robby. Nella prima immagine che vediamo della casa, vediamo come essa si inserisca quasi “organicamente” nel terreno, come se fosse una colorata astronave appoggiata lì da secoli, al punto tale che gli autori del sito Moviediva definiscono la casa del dottor Morbius come “a California modern house that would look natural in Big Sur”.
Frank Lloyd Wright - 1924 Ennis House...on haunted hill!! |
John Lautner - 1960 Malin House |
Analizzando ancora gli scenari del film si osserva come, nonostante le eccezionali conoscenze e capacità tecniche, la loro architettura sia sostanzialmente puramente funzionalista e a tratti “primitiva” e “massiva” nelle forme, si pensi soprattutto alla galleria che collega lo studio di Morbius con il laboratorio. L’esempio più interessante di architettura Krell è perciò la centrale nucleare, uno spazio che riesce proprio grazie alle sue dimensioni mastodontiche ad apparire come qualcosa di indefinito ed infinito. In particolare, gli interminabili “tagli” verticali creano uno spazio particolarmente futuribile che anticipa le sensazioni di irrealtà che ritroveremo a cinquanta anni di distanza all’interno della trilogia di Matrix.
Una delle forme architettoniche più distinguibili del film, il cosiddetto “arco caratteristico” dei Krell mostra invece un’inaspettata somiglianza con una delle opere più celebri di James Stirling, la Clore Gallery di Londra, realizzata come ampliamento della Tate Gallery of Modern Art nella prima metà degli anni ’80. L’opera fa parte del periodo finale della carriera di Stirling, quando l’architetto abbraccia, seppur con sobrietà ed eleganza, la corrente del postmoderno, riuscendo nel non facile compito di collegare la nuova costruzione con lo storico museo, tramite un sottile e raffinato gioco di richiami tra il “vecchio” ed il “nuovo”; ed è proprio in uno di questi giochi di citazioni che possiamo rilevare una curiosa ma evidente somiglianza con l’arco dei Krell a cui l’ingresso del museo di Londra sembrerebbe curiosamente richiamare. Bisogna però rilevare come secondo John Summerson la forma particolare dell’ingresso potrebbe essere una colta citazione postmoderna del frontone di un tempio classico scavato nella facciata, ed è da considerarsi anche come un possibile richiamo alle opere di Claude-Nicolas Ledoux.
John Lautner - 1968 Elrod House |
Beh...mi pare che la scienza abbia decisamente vinto, come sempre!! Le superstizioni le lasciamo ai miserabili, la pedanteria agli accademici... Chi vuol esser lieto sia: di doman "c'è" certezza!!
non c'è cosa più divina che leggersi il sermone su un treno a lunga percorrenza.
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